ISTRUZIONI PER L'USO

IL TALLONE D'ACHILLE è pensato per scrivere libri, direttamente su questo blog. Qui comincia l'Eredità di Michele, l'ultimo scritto. Il precedente è stato interrotto, si vede che doveva maturare. Qui trovate IL primo LIBRO, col suo indice ed i post che lo compongono.
I "libri" raccolgono commenti, critiche e suggerimenti di chiunque voglia partecipare con spirito costruttivo. Continuano un percorso iniziato con le Note scritte su Facebook , i cui contenuti sono ora maturati ed elaborati in una visione d'insieme, arricchiti da molti anni di esperienze diverse e confronti con persone diverse.

I Post seguono quindi un percorso logico che è bene conoscere, se si vuole ripercorrere il "discorso" complessivo. Naturalmente è possibile leggere singoli argomenti ai quali si è interessati. Argomenti spot - che spesso possono nascere dall'esigenza di commentare una notizia - saranno trattati in pagine dedicate.

Buona partecipazione!


lunedì 27 maggio 2013

Cap. I - Par 2b La moneta come riserva di valore. L'inflazione



Prosegue dal Paragrafo precedente

Riprendiamo il gruzzolo di monete che Sempronio aveva risparmiato e messo in banca. Una bella riserva di valore che aiuta a vivere tranquilli. Un potere d'acquisto che è solo rimandato al momento, futuro, in cui vorrà soddisfare qualche altro bisogno, comprando beni o servizi. La sua prima preoccupazione, sicuramente comprensibile, è che quel potere d'acquisto rimanga intatto nel tempo, che non venga eroso o distrutto dall'inflazione. 

C'è un episodio nella mia esperienza familiare che è estremamente chiaro, a riguardo. Mia madre aveva ricevuto in eredità da ragazza una somma di denaro molto importante, tale che avrebbe di certo modificato l'esistenza sua e quindi la mia. La somma di denaro è stata depositata in banca con un vincolo necessario al raggiungimento della maggiore eta. Il guaio è che si era in guerra, a quel tempo, circostanza che ha favorito l'esplodere dell'inflazione. Così che quando ha potuto entrare in possesso del denaro depositato, ci si è potuta comprare... un paio di scarpe. Le ho sempre immaginate comode ed eleganti, ma non ci hanno cambiato la vita; o forse si, chi può dirlo.

Quello che importa capire è che l'inflazione aggredisce una delle funzioni fondamentali della moneta: la riserva di valore. Un'inflazione contenuta la sminuisce, mentre una forte inflazione (iperinflazione) la distrugge completamente.

Eppure... faccio subito un avvertimento. La moneta ha più di una funzione. Favorisce gli scambi, misura il valore, conserva il valore. Quindi ogni cosa che la riguarda può assumere significati diversi a seconda della funzione che si sta valutando, di volta in volta. I risultati possono apparire anche molto contrastanti. Nel nostro caso, l'inflazione è sicuramente negativa per la funzione di riserva di valore ma potrebbe essere positiva per altre funzioni (scambio, e quindi stimolo alla produzione: più velocemente circola e più stimola la produzione).

Trattare dell'inflazione prima di procedere oltre serve a valutare meglio le conseguenze della scelta fondamentale che dovremo trattare successivamente: a chi attribuire il potere di controllo sulla creazione e la diffusione della moneta e come disciplinarlo. La scelta attuale, infatti, che è certamente discutibile, è giustificata esclusivamente con la necessità di tenere a bada lo spettro della perdita di valore della moneta. Quindi, finisce per sacrificare altre cose, legate alle altre funzioni che la moneta svolge. La crisi economica attuale è conseguenza abbastanza diretta di questa scelta.

Il discorso può essere noioso, ma il potere che condiziona le nostre vite è ben felice della nostra scarsa disponibilità a sforzarci di riflettere su cose che in fondo sono molto semplici.

Partiamo da un presupposto. Il dibattito della macroeconomia, in fondo, ruota attorno ad uno scoglio principale, rappresentato dall'eterno contrasto fra due obiettivi apparentemente inconciliabili: la piena occupazione e l'inflazione. Se c'è piena occupazione sale l'inflazione. Se si comprime l'inflazione, sale la disoccupazione. Il motivo di questa relazione lo approfondiamo dopo. Per ora, limitiamoci ad osservare graficamente nelle fig. 24 (Disoccupazione) e 25 (Inflazione) come abbia operato la loro relazione, usando i dati ISTAT


Fig. 24





Fig 25



Fermiamoci a valutare una conseguenza importantissima, legata all'osservazione. Chi ha importanti disponibilità di denaro o è creditore di denaro, ha un forte interesse a conservare il potere d'acquisto della propria ricchezza. Quindi, accetta di buon grado livelli elevati di disoccupazione. Non solo, ma è anche assai contento del fatto che tutti abbiano paura dell'inflazione, compresi quelli che di denaro ne hanno poco o nulla e sono indebitati, cosicché tutti siano indotti ad accettare livelli di mancanza di lavoro altrimenti ingiustificabili. E' evidente che se l'inflazione viene percepita come una minaccia, viene "tollerato" un certo livello di disoccupazione. Maggiore è la paura dell'inflazione che si riesce a incutere nella testa dei cittadini, maggiore sarà la loro rassegnazione di fronte a livelli di disoccupazione, anche drammatici

Non siamo forse rassegnati?


A dirla tutta, da qualcuno viene più o meno esplicitamente "auspicato" e perseguito, un congruo numero di persone senza lavoro! 

I rapporti economici, infatti, sono per natura conflittuali, caratterizzati da una innegabile tendenza allo sfruttamento. La stessa "base economica" prende vita dalla nascita del diritto di proprietà, che consegna a pochi proprietari il diritto di decidere cosa e come produrre e, soprattutto, come utilizzare e come distribuire la ricchezza prodotta. Portando i molti che non sono proprietari - e non hanno più accesso alle risorse naturali - a dover cedere il proprio lavoro per ottenere il sostentamento. Per una mirabile sintesi dell'evoluzione di questi rapporti, consiglio la lettura di questo breve articolo sull'Età dell'Oro.

Questa considerazione è importante per inquadrare correttamente la necessità di intervenire sempre a regolare rapporti di forza che nascono squilibrati e quindi, lasciati a se stessi, spingono inevitabilmente ad accentuare la concentrazione di ricchezza, nuovo potere, nuovo sfruttamento. Il "lasciar fare" è amico dei potenti proprietari, e nemico di chi, non avendo proprietà, è obbligato a cedere il proprio lavoro in cambio di prodotti.

Il condizionamento volto a far temere l'inflazione, naturalmente, avviene a livello abbastanza inconscio. Non è che i cittadini si pongono il problema in questi termini stringenti: "preferisco l'inflazione oppure la disoccupazione?". Assimilano la paura dell'inflazione (paura indotta ed ingigantita ad arte), e danno per scontato che le azioni che gli "esperti" propongono per contenerla siano corrette, quindi indispensabili, quindi accettabili. Gli esperti, quando non usano il linguaggio da esperti, e si rivolgono ai cittadini, non vanno mica in giro a dire che : "ci vuole più disoccupazione per tenere a bada l'inflazione". Sarebbero presi, probabilmente, a pesci in faccia. Dicono, piuttosto, che è indispensabile "garantire l'indipendenza delle banche centrali"... dicono che "bisogna raffreddare l'economia surriscaldata"... dicono che bisogna "garantire la stabilità finanziaria"... dicono che bisogna "contenere la spesa pubblica"... ma pensano a quello.

Quando usano il linguaggio da esperti, infatti, e sono rivolti ad un pubblico selezionato (normalmente ricco e creditore) parlano apertamente di NAIRU. Acronimo inglese che indica il livello di disoccupazione che è (supposto) necessario per poter contenere l'inflazione (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment). Livello indicato come "naturale". Concetto, questo che, sebbene sia insegnato nelle università, è e resta decisamente aberrante: ci induce - ed allo stesso tempo ci abitua - a considerare "naturale" sia la circostanza che la piena occupazione sia necessariamente inflazionistica, sia che ci dobbiamo abituare a convivere con un congruo, "naturale", livello di persone senza lavoro. Tanto naturale e necessario che ci conviene ignorare la loro disperazione: il loro dolore è un sacrificio ritenuto necessario al bene comune (sic!).

Pausa di riflessione.

Rileggiamo l'articolo 1, primo comma della nostra Costituzione. Osserviamo e riflettiamo sulla prima legge fondamentale; fonte di tutte le altre; pietra angolare della costruzione sociale; essenza stessa del patto sociale che ci vincola a vivere questa vita di relazione e non altre; vita, disegnata dall'insieme delle regole successive che dalla prima norma traggono legittimazione e che limitano la nostra libertà in cambio di un vivere supposto civile. I Principi Fondamentali non sono vacue affermazioni. "Principio" vuol dire che viene prima, che è più importante. "Fondamentale" vuol dire che su di esso poggia e si fonda la costruzione successiva. Senza di esso, crolla la legittimazione sociale. Non può e non deve essere violato.

Così inizia la nostra Costituzione :

Principi Fondamentali


Art. 1  L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

Il pensiero che nega la possibilità naturale di una piena occupazione, nega il patto sociale. E' un pensiero eversivo. Tradisce la lettera e lo spirito della nostra legge fondamentale. 

Eppure, attenzione: di questo pensiero è imbevuta la classe politica dirigente che occupa le Istituzioni, che è disposta a fare qualcosa per il lavoro - ma solo a condizione del rispetto del "necessario" rigore economico (si traduce: contenimento dell'inflazione, o deflazione, che del lavoro sono nemiche). Ammesso (e non concesso) che la piena occupazione (il lavoro per tutti) sia naturalmente incompatibile con il contenimento dell'inflazione, si tratterebbe comunque di scegliere: 

- vogliamo una Repubblica democratica fondata sulla salvaguardia del valore della moneta? 

- oppure ci sta bene una Repubblica democratica fondata sul lavoro?

Se la scelta è la seconda - ed al momento è l'unica legittima, l'unica non eversiva - dobbiamo allora chiamare gli "esperti" ed obbligarli ad invertire la formula: passare dal NAIRU al NAURI : Non Accelerating Unemployment Rate of Inflation. Cioè, l'obbligo di raggiungere il livello minimo di quella "naturale" inflazione che garantisca la piena occupazione. Così dovrebbe essere inteso il mandato della Banca Centrale Europea: non già garantire una bassa inflazione, ma, al contrario, una inflazione sufficientemente alta da garantire la piena occupazione. 

Non è follia. E' follia il non farlo.

Il bello, attenzione, è che esistono anche altre possibilità. In realtà questa relazione non è una condanna divina. Non siamo condannati inevitabilmente ad accettare, alternativamente, o disoccupazione e stabilità dei prezzi, oppure occupazione ma inflazione. E' possibile adottare accorgimenti - non particolarmente complicati - sufficienti a perseguire un equilibrio relativamente stabile. Partendo dal presupposto che la ricchezza vera si crea con l'organizzazione del lavoro, sarebbe sufficiente investire per creare occupazione ed impresa, garantire la "concorrenza" fra le imprese, intervenire amministrativamente a disciplinare gli squilibri di mercato.

Ci sono due problemi. Primo, alle grandi imprese un congruo livello di disoccupazione fa comunque estremamente comodo per poter meglio contenere i salari (sfruttare i lavoratori). 

Il Secondo problema, gravissimo, è che i governi hanno abdicato alla loro funzione, e si sono privati degli strumenti di governo dell'economia, lasciandoci in balia delle forze di mercato. Forze che, lasciate a se stesse - al contrario di quanto gli "esperti" ci vogliono far credere - ci schiacciano in questo odioso dilemma, favorendo in maniera sempre più sfacciata l'accumulazione del capitale, del debito, del potere.

E' indispensabile che ognuno di noi valuti approfonditamente questa rinuncia dal carattere pilatesco operata dalla politica.

I rappresentanti nelle Istituzioni, nel momento in cui hanno scelto di anteporre la stabilità finanziaria alla creazione di lavoro e di benessere sociale, si sono schierati dalla parte dei ricchi creditori. Negando la possibilità che il Governo e gli Enti locali possano investire per creare la piena occupazione (questo è il Patto di Stabilità, questo è il Fiscal Compact) in nome di un rigore contabile che serve esclusivamente a mantenere inalterato il potere d'acquisto della moneta e a difendere gli interessi dei creditori, hanno condannato 5,9 milioni di Italiani (dati Istat) a non avere un lavoro. I nostri figli a non avere un futuro. Il tessuto delle piccole e medie imprese ad agonizzare. E' infatti con l'introduzione dei parametri demenziali sul debito, ed il trasferimento al sistema finanziario privato della leva monetaria, (descritti nei paragrafi precedenti) che hanno creato prima e ingigantito poi il problema del debito che ora non sono più in grado di gestire.

Con quella scelta, però, hanno negato la legittimazione della loro presenza. La realtà è che nessuno può invocare la nuova versione dell'articolo 81 della Costituzione, che obbliga lo Stato a tollerare (anzi, a favorire) la crisi economica e la disoccupazione, o il Patto di Stabilità, o il Fiscal Compact, o le altre diavolerie del MES e del Two Pack in maniera legittima, perché tutte queste scelte sono in manifesto contrasto con i Principi Fondamentali della Costituzione. Ok, ci torniamo dopo, perché prima dobbiamo impossessarci meglio degli aspetti tecnici per poter valutare appieno il senso e la portata del tradimento politico.

Fine pausa. 

Prendiamo atto e rimaniamo sempre consapevoli: la disoccupazione NON è il risultato casuale di accidenti capitati per caso, e neppure il risultato di manovre di politica economica sbagliate: la disoccupazione è il risultato VOLUTO da chi desidera contenere l'inflazione, affinché la ricchezza finanziaria (di pochi) venga salvaguardata ed i profitti privati meglio garantiti.

L'inflazione, infatti, ha un certo potere re-distributivo della ricchezza monetaria. E' in grado di spostare il potere d'acquisto della ricchezza reale (beni e servizi). 

Approfondiamo questo aspetto, partendo dal sottolineare la differenza fra il concetto di ricchezza ed il concetto di riserva di valore che ingenerano confusione. Sono cose molto diverse. Ricordiamo quanto detto nel paragrafo precedente: la moneta NON è la ricchezza. Non si mangia, non ci veste, non ci ripara dal freddo e dalla pioggia. Serve per scambiare la ricchezza vera, che è data dai beni materiali e dai servizi utili che usiamo per soddisfare i nostri bisogni e che produciamo con il lavoro e la sua organizzazione. Cibo, vestiti, case, etc etc.

La funzione di riserva di valore dipende dal patto sociale: la legge ci chiede di accettare le banconote e la moneta bancaria nei nostri scambi di beni e servizi, implicando che chi è in possesso di moneta è in credito di beni e servizi. Quanti? Esattamente di quella quantità determinata dalla moneta che "misura il valore", attraverso i prezzi. Assegnare un prezzo in moneta ad un bene o un servizio, lo rende immediatamente comparabile con tutti gli altri beni e servizi disponibili sul mercato.

Cosa succede se resta ferma la quantità di beni e servizi disponibili sul mercato e salgono i prezzi (inflazione)? Succede che chi ha in mano la moneta, vedrà diminuire il suo potere d'acquisto: il suo potere di entrare in possesso di quei beni e servizi reali. Badiamo bene: non si sposta il possesso di beni reali (ricchezza vera) ma il potere di acquistarli. Questo è il meccanismo attraverso il quale l'inflazione toglie potere d'acquisto a chi è in possesso di ricchezza finanziaria (moneta), e lo consegna a chi è in possesso di ricchezza reale (beni e servizi). E siccome il lavoro è uno dei servizi che possono essere ceduti in cambio di altri beni e servizi (o del potere di acquistarli) è evidente che l'inflazione non può fare più male ai lavoratori di quanto non ne faccia ai ricchi creditori. Non lasciamoci confondere le idee dai meccanismi che hanno tolto potere negoziale ai lavoratori e badiamo all'essenziale. 

La cosa aiuta a capire perché sul concetto di inflazione circolino tante mistificazioni, volte a presentarla come un mostro. Ricordiamo il video sul sito della BCE... ooops, ricercandolo, ho trovato dell'altro: divertitevi a giocare con la BCE all'isola dell'inflazione (Inflation Island). Navigate e interrogate i personaggi: ne dicono delle belle. E' un esempio puro di manipolazione delle informazioni, dove, all'interno di alcune indubitabili verità, vengono inserite bugie belle e buone e tanti tanti sottili accorgimenti volti a mostrare l'inflazione come un mostro, dall'accezione sempre e comunque negativa.




Domanda importante: quali sono le categorie economiche che hanno maggiore interesse al mantenimento del potere d'acquisto della moneta?

Nell'immaginario collettivo - che è stato alimentato ad arte dai nemici giurati dell'inflazione - l'inflazione è la più ingiusta delle tasse sui deboli, sui poveri, sui pensionati, sui lavoratori dipendenti. Quindi, se ne dovrebbe dedurre, la riduzione del valore della moneta farebbe più danni a chi... ha meno moneta di altri :-)

Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Se non fosse per il fatto che poi la crisi scatenata per mantenere intatto il potere di acquisto di chi di moneta ne ha tanta, si continuano a massacrare pensionati, deboli, lavoratori dipendenti, poveri. Non sono forse loro a subire maggiormente gli effetti nefasti della crisi?

Si afferma che quando c'è inflazione i cittadini non spendono... i negozi non vendono... l'economia rallenta... amenità che si possono trovare solo nell'Inflation Island e nella fantasia di chi, manipolando il linguaggio e le informazioni, ci induce a pensare cose sbagliate. Nella realtà, scusate: se i soldi che abbiamo in tasca perdono valore, e domani varranno meno di oggi, non ci affretteremo forse a spenderli, il prima possibile? E se non ne abbiamo a sufficienza, ce li faremo prestare: tanto, quando dovremo restituirli, varranno di meno. E quando il denaro circola più velocemente, l'economia si surriscalda  oppure ristagna come ci viene fatto credere? 

Dubitare, sempre e comunque, degli "esperti", è un sano principio, nell'era della manipolazione del consenso.

Introduciamo quest'altro rapporto importante: inflazione/credito. 

Altra esperienza di vita vissuta. Questa volta contraria a quella di mia madre: i benefici dell'inflazione. Ho comprato casa a Roma agli inizi degli anni ottanta prendendo un mutuo allo spaventoso tasso d'interesse del 23%. C'era, allora, una inflazione superiore al 20%. Ma c'era anche la "scala mobile". Proteggeva il potere d'acquisto dei salari dall'inflazione. Ogni tot mesi, il valore nominale dello stipendio aumentava in maniera direttamente proporzionale al variare dell'indice dei prezzi al consumo, mentre la rata rimaneva ferma. Il mutuo (debito) era stato fissato, ed il suo peso diminuiva con il diminuire del valore della moneta. L'inflazione fa bene ai debitori, perché, diminuisce il valore del debito. Inoltre, attenzione attenzione, al contrario delle favole che ci vengono raccontate oggi, l'inflazione si accompagna al surriscaldamento dell'economia. Altro che crisi. E quando l'economia corre gli stipendi salgono più facilmente. La somma delle due cose mi ha consentito di acquistare casa con uno stipendio da  neo assunto. Sacrifici di sangue, certo, soprattutto i primi anni (e l'aiuto della famiglia, indispensabile). Oggi, però, anche con l'aiuto della famiglia, i miei figli non possono neppure averlo il mutuo, con uno stipendio da neoassunti. Se lo sognano, di comprare casa, con l'inflazione ai minimi e i tassi illusoriamente bassi (ricordiamoci sempre che sono i tassi reali, quelli che contano, non quelli nominali; quelli depurati dell'inflazione).

Riassumendo.

L'inflazione, consumando il potere d'acquisto, la riserva di valore della moneta, fa male a chi di moneta ne ha tanta, non a chi ne ha poca. Se qualche "esperto" ci dice il contrario, varrebbe la pena ipotizzare che sia in possesso di tanta moneta. Oppure che sia un creditore...

L'inflazione fa bene ai debitori, abbiamo visto. Quindi, mentre alleggerisce il peso materiale del debito, impoverisce i creditori.

Chi è che controlla l'informazione che ci va raccontando il contrario? Poveri debitori o ricchi creditori?

Questo aspetto del collegamento fra inflazione e debito è particolarmente importante. Il debito globale che si è accumulato nei paesi occidentali - fatto molto più di debito privato che di debito pubblico - è diventato oggettivamente insostenibile, e tutti coloro che sanno, sanno che non potrà essere rimborsato. L'inflazione è una delle soluzioni possibili per risolvere questo problema, enorme, che pende sulla civiltà occidentale. Ma fa male ai ricchi e ai potenti creditori. L'alternativa, è il massacro sociale necessario a spremere da popolazioni innocenti il sangue necessario a coprire le perdite di un gruppo sempre più ristretto e cinico. La crisi contemporanea ci dice senza mezzi termini quale sia la soluzione che è stata concepita dai grandi proprietari creditori ed avallata dai nostri governanti. La devastazione della Grecia - come di Cipro, l'Islanda, l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna e, presto, l'Italia - ne sono un esempio eclatante.


Osserviamo ora più in profondità la relazione fra occupazione e inflazione, introducendo nel ragionamento un altro angolo visuale, solo accennato: quello dei datori di lavoro, con il loro interesse a perseguire un profitto. Il più elevato e rapido possibile.

I proprietari della ricchezza spesso si trovano anche dalla parte di chi possiede, gestisce o controlla la produzione: le imprese. Attenzione alla dimensione. La cosa è sempre meno vera per le piccole imprese. Ma è tanto più vera quanto più cresce la dimensione aziendale. E, con la dimensione, il potere di condizionare le istituzioni e le regole del gioco. Un congruo livello di disoccupazione produce un effetto collaterale molto importante per le imprese: in presenza di un certo numero di persone che hanno bisogno di lavorare per sopravvivere, è molto più facile proporre salari ridotti. Anche trattamenti "da fame". Anche completamente a nero. Non c'è bisogno di grafici e di statistiche: oggi che la disoccupazione aumenta, i nostri figli "sperano" di ottenere uno stage perfino non remunerato, pur di entrare nel mondo del lavoro. La riforma Fornero ha garantito che possano essere sottopagati per un lungo periodo, una volta che entreranno ufficialmente. Poi, trascorso il lungo periodo... liquidati ed espulsi. 

La concorrenza, come ci insegna Adam Smith, fa scendere i prezzi ed è un meccanismo potente. Il guaio, e che con la globalizzazione sono stati messi in concorrenza i lavoratori fra di loro, mentre il rigore contabile e regolamenti burocratici precludono la concorrenza fra imprese. Così l'unico prezzo che scende... è quello del lavoro.

Se il sistema della competizione internazionale consente a poche grossissime imprese multinazionali di offrire poco lavoro ad una massa di miliardi di lavoratori in concorrenza fra loro; mentre una serie di vincoli preclude l'accesso di altre imprese sul mercato; si genera uno squilibrio strutturale insanabile fra domanda e offerta di lavoro, che ne spinge inesorabilmente verso il basso il suo prezzo: il salario. 

Le scelte politiche impediscono agli Stati di intervenire a creare lavoro; i regolamenti burocratici impediscono l'accesso a nuove imprese sul mercato; il sistema finanziario internazionale non fa arrivare le necessarie risorse all'economia reale ma le dirotta sui mercati finanziari. Che cosa altro possiamo mai aspettarci se non una continua, inevitabile, inesorabile, drammatica e inaccettabile perdita del potere d'acquisto dei salari? Accompagnata da disoccupazione crescente e da una crescente concentrazione di ricchezza e potere nelle mani di pochi?

Contenendo i salari e quindi il costo del lavoro (che è quasi sempre l'elemento principale di costo della produzione), possono aumentare i "profitti" delle imprese.

Quindi, la disoccupazione consente contemporaneamente di contenere l'inflazione e di aumentare i profitti delle grosse imprese. Per questo è doppiamente "desiderata e perseguita", da alcuni. A farne le spese, in entrambi i casi, sono i lavoratori che devono subire meno lavoro e meno salario.

Si tende ad intuire (più che altro a far credere) che esista un limite naturale a questa possibilità di sfruttamento: se le famiglie consumatrici non hanno soldi, perché sono disoccupate o hanno salari da fame.. chi potrà mai comprare i beni prodotti dalle grandi imprese? Quindi, si dice, lasciamo fare alle forze di mercato, che troveranno un accordo "naturale", necessario anche alla sopravvivenza delle imprese stesse. Ancora una volta. La piccola dimensione lo capisce, ma ha le armi spuntate. Alla grande dimensione, invece, non importa affatto: c'è la globalizzazione. La competizione. Il mercato unico. La libera circolazione di capitali e merci. Ci sono i mercati emergenti. In patria, i lavoratori possono crepare. Comunque le famiglie, diligenti, mettono mano ai risparmi (ricordiamo che in Italia ce n'è ancora una montagna). Le merci si vendono altrove, ed il profitto è assicurato.

Perché, nel nostro mondo capovolto, alle persone è reso difficile circolare. Si alzano barriere nel tentativo di ostacolare in qualche modo questa concorrenza fra lavoratori, senza capire che i confini possono fermare le persone ma hanno scelto - sempre per deliberata scelta politica - di non voler fermare i capitali e le merci. Le merci - ed il capitale - vanno dove conviene alle multinazionali, non dove ce n'è bisogno.

Ripercorriamo gli ultimi decenni. Le lotte degli operai e dei lavoratori degli anni sessanta e settanta avevano prodotto un certo livello di occupazione e, soprattutto, di potere d'acquisto dei salari, accompagnati purtroppo da livelli di inflazione tendenzialmente crescenti. Il livello di occupazione ed il potere d'acquisto dei salari, stiamo vedendo, sono collegati in maniera abbastanza proporzionale. Non in conseguenza di arcane formule matematiche, bensì in conseguenza del potere negoziale che è evidentemente diverso nelle due ipotesi. Quando c'è tanta disoccupazione è difficile trovare lavoro: non ci sono molte alternative. Ci si siede al tavolo delle trattative con la consapevolezza del rischio di perdere il posto e di non poterne trovare un altro. In queste condizioni, si accettano condizioni sgradevoli. Al contrario, quando l'economia tira e ci sono pochi disoccupati, il lavoratore acquista sicurezza e potere negoziale: alza le sue pretese. Le imprese non vogliono correre il rischio di perdere forza lavoro già addestrata proprio quando ne hanno bisogno, considerando che di lavoratori a spasso ce ne sono pochi. Inoltre, stanno facendo profitti ed hanno margini di guadagno da "spendere" nella trattativa. Non ultimo, visto che anche i consumatori hanno soldi da spendere, è possibile  per le imprese scaricare sui prezzi dei beni da vendere il costo degli aumenti salariali. 

Quando c'è piena occupazione, quindi, i salari tendono a salire, grazie al maggiore potere negoziale dei lavoratori. Gli aumenti salariali si trasformano in inflazione solo se le imprese hanno la possibilità di aumentare i prezzi (quando non c'è concorrenza)

Ciò avviene perché si rompe l'equilibrio sostanziale fra domanda ed offerta. Se fosse garantita una diversa facilità di accesso al mercato a nuove imprese, se fossero spezzati oligopoli e monopoli, in presenza di prezzi più elevati arriverebbero nuove produzioni di beni a ristabilire l'equilibrio fra domanda e offerta. 

Questo aspetto è fondamentale, perché introduce un elemento di scelta. Si può scegliere se combattere l'inflazione contenendo i salari, oppure garantendo maggiore concorrenza fra imprese. Ma bisogna stare molto attenti a non farsi fregare dalle parole e dalle illusioni: la concorrenza reale non ha nulla a che vedere con la libertà del capitale di fare il cavolo che gli pare. Liberismo e concorrenza sono concetti molto diversi. Il mercato, lasciato a se stesso, nega la concorrenza e produce concentrazione di potere. Solo l'intervento delle Istituzioni può garantire l'equilibrio. Oppure la lotta di classe. O tutte e due le cose insieme.

Torniamo a valutare la manipolazione delle informazioni sul concetto d'inflazione. Nello scenario degli anni settanta, già sufficientemente inflattivo, sono intervenuti due shock petroliferi scatenati dal conflitto nel medio oriente. Benzina sul fuoco che ha alimentato una grave e improvvisa risalita di tutti i prezzi in conseguenza dell'esplosione del prezzo del petrolio (e quindi dell'energia, dei trasporti, etc.; costi che si ripercuotono sui prezzi di tutti gli altri beni di consumo). Lo shock, singolarmente "tempestivo" ed efficace, ha prodotto il suo effetto, dando un contributo significativo alla "paura" preconcetta nei riguardi dell'inflazione. E' in quegli anni, infatti, che il termine ed il concetto di inflazione assume nella opinione pubblica un significato definitivamente negativo e preoccupante. Chi conosce il meccanismo di funzionamento della nostra mente sa che le paure improvvise incidono profondamente nella memoria e nella reazione che, in momenti successivi, abbiamo di fronte a situazioni che richiamano - in qualche modo, anche labile - l'episodio scioccante o le sue conseguenze. A livello collettivo, tendiamo ad agire e a reagire in maniera assai simile. L'opinione pubblica ha una prevenzione inconscia nei confronti dell'inflazione. 

L'aumento dei prezzi causato da un aumento della domanda è molto diverso da quello causato da un aumento dei costi. Quando salgono i prezzi pagati a qualcuno che non fa parte del giro (l'Italia non produce petrolio), tutti perdono: lavoratori, imprenditori, risparmiatori. La ricchezza va all'estero. Naturale che, a causa dello shock petrolifero, fra il finire degli anni settanta e l'inizio degli anni ottanta sia aumentata la disoccupazione e la crescita del paese abbia subito un rallentamento importante. Ma la colpa è stata attribuita genericamente all'inflazione, ricondotta alle svalutazioni della lira, all'eccesso di spesa pubblica, a salari troppo elevati: di tutto, di più. Senza considerare che l'aumento dei prezzi (quello esagerato) era stato causato essenzialmente da costi esterni.

Questo ci porta a considerare che il termine di inflazione è generico. Aumento dei prezzi. Ma non dice quali. E' necessario specificare e introdurre importanti differenze. Prezzi al consumo. Prezzi alla produzione. Prezzi degli investimenti finanziari (asset inflation). Sono cose diverse, scatenate da cause diverse. Ci torniamo.

Intanto, vediamo la reazione allo shock. La colpa è stata attribuita a tre fattori: la scala mobile (il meccanismo con il quale i salari erano adeguati automaticamente al livello dei prezzi); alla tendenza del governo ad esagerare con la spesa pubblica; alla vecchia abitudine di svalutare la lira per avere competitività sui mercati esteri. Si sa che i Governi ed i politici rischiano facilmente di cedere alla tentazione di lasciarsi intenerire il cuore di fronte alle sofferenze dei disoccupati e alla voglia dei cittadini di servizi pubblici gratuiti. La prospettiva di perdere consenso elettorale attribuisce una forza particolare alla tentazione di stampare moneta per soddisfare i desideri (o i capricci) degli elettori. Così, per evitare problemi, per il bene di tutti, gli "esperti" hanno pensato, negli anni immediatamente successivi, che la soluzione ideale sarebbe stata quella di sottrarre Governi e Parlamenti alla tentazione, consegnando a qualche soggetto più idoneo il controllo della creazione monetaria. La circostanza che una inflazione causata dall'aumento improvviso ed esagerato del prezzo del petrolio non possa avere avuto nulla a che fare con le scelte di spesa dei governi, e tantomeno con il potere negoziale dei lavoratori, è passata assolutamente inosservata. Ma la paura è rimasta, al punto tale che nel giro di poco tempo si è provveduto a cedere la "sovranità monetaria" ad una banca centrale che è diventata, attraverso i passaggi descritti nei paragrafi precedenti, prima indipendente, poi sempre più estranea allo Stato (ed ai suoi interessi), e la moneta si è trasformata in una moneta sostanzialmente straniera. Poco dopo, nel 1985 è stata abolita la scala mobile addirittura con referendum. Tanto i lavoratori si sono lasciati incantare dalle favole sull'inflazione. 

L'intera sostanziale privatizzazione di tutto il sistema finanziario - dalla creazione della moneta alla sua gestione e distribuzione - è giustificata, negli ultimi decenni, sulla base esclusiva di questo ragionamento: incapacità degli Stati di controllare l'inflazione.  

Quindi vale la pena metterci il naso dentro ben benino. C'è puzza di bruciato.

Intanto abbiamo aggiunto un altro pezzo di informazione importante, quando abbiamo implicitamente collegato la tentazione di "stampare moneta" all'aumento del pericolo di inflazione. Relazione sicuramente da approfondire,  quella del rapporto fra quantità di moneta in circolazione e inflazione.  

Definiamo intanto l'inflazione, per essere sicuri che parliamo tutti della stessa cosa e non confondiamo le mele con le pere. Però lo facciamo ignorando, al momento, tanto wikipedia quanto i testi più o meno classici degli economisti, alla ricerca in buona fede di una rappresentazione della realtà che ci aiuti a capirla, per poterla eventualmente modificare. Poi vedremo anche le definizioni ufficiali, valutandone le eventuali incongruenze e le mancanze, per rivalutare la validità della scelta. 

Gonfiare d'aria, dal latino inflare. Prezzi che salgono senza ragione concreta, gonfiati d'aria, di nulla. Eppure salgono. Per capire meglio, usiamo le conoscenze fondamentali dell'economia, semplici semplici, che fa sempre bene ricordare.

Concentriamoci sull'inflazione al consumo. Quella alla quale tutti pensiamo se non viene specificato. 

Andiamo al mercato delle mele.


La legge della domanda e dell'offerta ci dice quando è che un prezzo sale. I prezzi salgono quando aumenta la domanda di un bene, oppure quando diminuisce la sua offerta. Il che è assolutamente intuitivo. 

Se ci sono tre chili di mele al mercato; tre compratori affamati con un euro in tasca a ciascuno; il prezzo di ieri era di un euro al chilo, è facile immaginare che il prezzo delle mele rimanga fermo: un euro al chilo. Ma se arriva un quarto compratore con due euro in tasca (aumenta la domanda), rischia di rimanere a secco (non ci sono mele per tutti)... ecco che si verifica il presupposto per l'inflazione: quel quarto incomodo è disposto a pagare più di un euro per un chilo, per essere sicuro che otterrà la sua razione, lasciando a secco qualcun altro (si chiama competizione). Se il venditore ne è informato, possiamo essere certi che il prezzo salirà, almeno fino a quando il nuovo soggetto con maggiori disponibilità finanziarie non sarà soddisfatto. 

Facciamo mente locale su alcuni particolari, per cominciare a mettere qualche punto fermo. Se il quarto uomo avesse in tasca non più di un euro, per quanta fame o prepotenza possa avere, il prezzo delle mele non potrebbe mai salire. L'osservazione è importante, perché mette in giusta luce un aspetto spesso travisato dell'inflazione. La salita dei prezzi non è un fenomeno psicologico. La fame (spinta psicologica molto forte) non è in grado di far salire i prezzi. Occorre un cosa molto concreta: la disponibilità di potere d'acquisto. Monete in tasca ai consumatori. Quando i consumatori hanno in tasca moneta da spendere, possono reagire a impulsi psicologici, altrimenti no.

Vediamo la cosa dal lato opposto. Arriva un altro venditore di mele ed offre, ai tre clienti con l'euro in tasca, altri 2 chili di mele che si sommano ai tre del primo mercante. Aumenta l'offerta. Diamo per scontato che più di un chilo di mele non entra nello stomaco dei clienti. A questo punto la competizione fra i due mercanti conduce ad un risultato scontato: offrire un prezzo più basso per non correre il rischio di rimanere senza soldi e con la merce invenduta. Concludiamo dicendo che, mantenendo ferma la domanda (disponibilità a comprare), l'aumento della quantità offerta (disponibilità a vendere) provoca una diminuzione dei prezzi (la deflazione). Invece l'aumento della domanda, di fronte ad una offerta ferma, provoca inflazione: aumento dei prezzi.

In questo modo, abbiamo definito una relazione molto importante. Il prezzo rappresenta in ogni momento un equilibrio fra quantità di domanda e quantità di offerta.

Se vogliamo capire in profondità l'inflazione, dobbiamo fissare questa immagine: tutto dipende dall'equilibrio fra quante risorse finanziarie sono destinate ad acquistare determinate categorie di beni, e quanti beni sono materialmente disponibili, offerti a fronte di quella specifica domanda. Ricordando che le diverse categorie di beni contano. Eccome. 

Generalizzare, mischiando categorie di beni (al consumo, per la produzione, di investimento finanziario) confonde.

L'equilibrio non è - e non deve essere - statico. Un altro modo di vedere la stessa cosa è questo: quantità di domanda e quantità di offerta devono variare nella stessa direzione e nella stessa intensità per far si che i prezzi non cambino. Se infatti arrivano al mercato contemporaneamente due compratori con un euro in tasca e il secondo mercante con due chili di mele, il prezzo rimarrà fermo ad un euro per un chilo di mele. Ma più persone mangeranno, e più mercanti (e produttori) saranno soddisfatti.

Altro passaggio da capire bene: la domanda dipende dalla disponibilità a comprare che, a sua volta, è limitata dalla quantità di moneta in saccoccia. Il fenomeno è reale, non solo psicologico. Lo abbiamo visto dal lato della domanda ma ce n'è una controprova dal lato dell'offerta. Psicologicamente, tutti i mercanti hanno una pulsione irresistibile ad aumentare i prezzi di vendita dei loro prodotti. Se l'inflazione potesse dipendere dalla "volontà" dei mercanti, salirebbe senza sosta. Cos'è che limita - dal lato dell'offerta - questa pulsione psicologica? La concorrenza, perché delimita la possibilità materiale di aumentare i prezzi. Per capire, supponiamo che nel nostro mercato delle mele ci siano i tre soggetti compratori affamati con 1,5 euro in tasca ciascuno (hanno avuto un aumento salariale); che il prezzo del giorno prima sia di 1 euro al chilo; e che l'unico mercante abbia portato tre chili di mele. Non resistendo al suo impulso naturale di provare a guadagnare di più, mette il cartello: 2 euro al chilo. Risultato: nessuno può comprare. Scende a 1,75.. idem. 1,50.. ed ecco che, se la fame è tanta, il prezzo verrà fissato al livello più alto del giorno prima, per effetto della aumentata disponibilità di spesa dei consumatori. Così l'aumento salariale.. è finito ad ingrassare il mercante. Ma se arriva il secondo mercante, portando altre mele, ecco che l'equilibrio ritorna. Il potere di influenzare i prezzi del primo mercante svanisce come per incanto dall'arrivo del secondo, disposto ad accettare 1 euro per le sue mele, o magari addirittura 80 centesimi. 

Conclusione. Gli effetti psicologici dell'inflazione sono fortemente condizionati dalla quantità di moneta nelle tasche dei consumatori e dalla quantità di merce che i venditori debbono vendere. L'equilibrio è reale, non solo psicologico. 

Spostando il ragionamento dal mercato delle mele all'insieme degli scambi che avvengono in un periodo di tempo e in un contesto territoriale determinati, aumenta la complessità ma il risultato non cambia molto, consentendo di generalizzare i principi descritti.

Possiamo ora definire meglio l'inflazione al consumo come quel fenomeno di perdita del potere d'acquisto della moneta che si verifica quando non c'è più equilibrio fra quantità di cose che si vogliono comprare (la domanda di beni e servizi) e materialmente si possono compare (perché si hanno a disposizione risorse finanziarie); e quantità di cose che si vogliono/possono vendere (l'offerta di beni e servizi). 
Per evitare l'inflazione bisogna fare in modo che quell'equilibrio fra domanda e offerta sia continuamente preservato.  

La bilancia non si muove se, figurativamente, il peso delle merci in vendita equivale al peso delle monete nelle tasche dei consumatori.




Ma: attenzione, attenzione. Teniamo sempre a mente che questo equilibrio, si può scegliere di perseguirlo spostando contemporaneamente domanda ed offerta verso il basso, anziché verso l'alto. Rendendo la collettività più povera, ma qualche furbo più ricco.


A livello complessivo, va considerata la reazione che l'aumento della domanda provoca sulla produzione di nuovi beni e servizi, e quindi sull'offerta. Se ci sono mezzi per la produzione disponibili, l'aumento della domanda spinge i produttori ad aumentare la produzione, ristabilendo l'equilibrio. Se invece i fattori della produzione non sono disponibili, l'aumento della domanda si traduce in inflazione. 

Non è possibile spostare l'equilibrio verso l'alto all'infinito. Il limite è dato dalla quantità di impianti non utilizzati, dall'esistenza di lavoratori non occupati e dalla disponibilità di materie prime.

Incontriamo così nuovamente la relazione fra piena occupazione ed inflazione. Ma ora possediamo qualche strumento in più per provare a cercare di preservare la stabilità dei prezzi anche in regime di piena occupazione. Abbiamo capito che la cosa importante è garantire che all'aumento dei salari e dei profitti (disponibilità finanziarie), corrisponda un aumento di beni reali e servizi da acquistare (offerta di ricchezza reale).

La via più immediata è quella di cercare di mantenere l'equilibrio prima che si rompa, facendo in modo che gli aumenti salariali corrispondano solo ad aumenti del prodotto. Per raggiungere l'obiettivo, bisogna tenere presente un aspetto importante: il potere negoziale, infatti, si sposta abbastanza facilmente dai lavoratori ai datori di lavoro mano a mano che ci si allontana dalla piena occupazione. 

Alti livelli di disoccupazione e perdita di potere d'acquisto dei salari si accompagnano - non a caso - alle crisi economiche, quando la crescita ristagna o è negativa. Siamo di fronte ad un circolo vizioso

La crescita economica (la domanda complessiva) è data dalla spesa per consumi più la spesa per investimenti più la spesa dello Stato più il saldo commerciale con l'estero. 

L'alta disoccupazione (pochi salari) e la diminuzione del potere d'acquisto dei salari stessi fanno si che la spesa per consumi debba necessariamente scendere, anche considerando che l'incertezza per il futuro limita la propensione a consumare il risparmio, se non per il minimo indispensabile. Le aziende, dal canto loro, non investono volentieri quando hanno i magazzini pieni di merce invenduta. La globalizzazione dell'economia mondiale fa si che tutti sperano di risolvere i propri problemi esportando, e non possono far nulla per sostenere i consumi interni. In questo modo, per diventare "competitivi", si tagliano i salari (aggravando la domanda interna), si tagliano i costi "sociali" (impatto ambientale e impatto sociale della produzione) e si taglia persino la qualità dei prodotti, presi dalla frenesia di tagliare in qualsiasi modo i costi della produzione.

Lo Stato, l'unico che potrebbe e dovrebbe intervenire a spezzare il circolo vizioso, aumentando la spesa pubblica, ha scelto, invece, di obbligarsi a tagliarla.

Tutto ciò è oggettivamente stupido. Ed è il risultato evidente del "lasciar fare". 

Lasciar fare è sinonimo di irresponsabilità. Chi ha la responsabilità di governare l'economia, ha il dovere di governarla, perché le forze del mercato lasciate a se stesse tendono a produrre enormi disequilibri, che ci fanno stare oggettivamente male. 

Questa realtà è sotto i nostri occhi. E' oggettiva. E' tangibile nella disperazione delle persone che perdono il lavoro, in quelle che non lo trovano, nelle aziende che chiudono, nei servizi sociali che vengono tagliati.   

E' incredibile la resistenza psicologica che le persone incontrano nel dover "criticare" il libero mercato. Gli "esperti" ce lo hanno assicurato tante ma tante di quelle volte, che il mercato ci farà stare tutti meglio, che lo diamo ormai per scontato; anche quando avviene il contrario sotto i nostri occhi. 

Ma quello che non è più tollerabile, quello che non deve più essere tollerato. Quello che deve spingere chiunque abbia una coscienza sociale ad alzarsi e reagire, è la gran faccia tosta degli "esperti" e dei politici che continuano a ripetere che la ripresa è dietro l'angolo, che la crescita e l'occupazione sono compatibili con il rigore e con il rispetto di parametri che non hanno nessun senso economico, se non la spinta inevitabile verso livelli più bassi di produzione e di occupazione. Lasciamo fare al mercato, e la crescita arriverà, assieme al lavoro... eccola che arriva, non la vediamo, forse, all'orizzonte? 

NO. Non c'è. Nè ci può essere, con questa scelta scellerata di lasciar fare a forze che spingono in tutt'altra direzione.

Cosa "vediamo", quando siamo disincantati? Disoccupazione. Incertezza nel futuro. Ansia sociale. Aziende che chiudono. Prodotti che costano meno, solo perché valgono molto meno. Servizi sociali sempre più scadenti, perché gli enti locali non hanno più soldi per mantenerli. Tasse sempre più alte e sempre più ingiuste. Il patrimonio pubblico che è visto sempre più come qualcosa da vendere per uscire dalla disperazione. I servizi pubblici essenziali garantiti a tutti erano l'orgoglio della scelta europea dello stato sociale. E' stato sacrificato all'egoismo delle multinazionali e della finanza, che pretendono di far crescere la ricchezza finanziaria senza far crescere, con il lavoro e la sua organizzazione, i beni reali e i servizi. Quello che vediamo, quando apriamo gli occhi, è il desiderio di avidi investitori internazionali di mettere le mani sui servizi pubblici, non più tutela delle persone, ma strumento di profitti privati. In spregio alla ripetuta volontà popolare di salvaguardarli, saremo costretti a svenderli, stretti come siamo nella gabbia delle stupide leggi che sono state adottate. Vediamo il divieto di investire. Il divieto di spendere. Il divieto di creare lavoro. 

Abbiamo capito che alla libertà degli operatori di mercato di operare senza vincoli, per perseguire il profitto finanziario privato, corrisponde un sempre più stringente, folle, irresponsabile "divieto" delle Istituzioni di intervenire in qualsiasi modo nell'economia. Impossibilitate a svolgere la funzione di tutela delle parti più deboli, per le quali sono nate.

Il vincitore trionfante di questa libertà dei mercati, sono le grandi imprese multinazionali, alleate del grande capitale finanziario internazionale e delle istituzioni finanziarie, rese separate dalla possibilità di controllo politico. 

A loro, della crescita economica dei singoli Stati, non importa nulla. Sono al di sopra degli Stati. Dei costi sociali importa meno che meno (i bilanci sociali che più o meno spontaneamente si affannano a pubblicare, sono ipocrisia allo stato puro). Della qualità dei prodotti, poi, importa quel tanto che basta per riuscire a venderli. La qualità "reale" è ampiamente sostituita da quella "percepita", grazie agli immensi sforzi finanziari profusi nella pubblicità. Ma anche grazie alla enorme ipocrisia della certificazione della "qualità". Si compra, la certificazione. Anche senza immaginare necessariamente la corruzione, rimaniamo al senso letterale del termine: per avere la certificazione, devo comprarla: pagare qualcuno che me la da... e che, se non me la da... non lo pago più. Se i beni venduti durano poco, a causa della bassa qualità "reale", per noi è un problema, per le multinazionali è un vantaggio: ne venderanno di nuovi. Talmente un vantaggio che l'obsolescenza di molti prodotti è programmata. La diminuzione del salario (nostro problema) corrisponde ad un aumento dei profitti (loro gioia). 

Avendo reso pubblico un debito che nasce privato, ed avendo reso privato il controllo del sistema finanziario che nasce pubblico, abbiamo consentito al grande capitale privato ed internazionale di renderci prigionieri di un falso problema: un debito pubblico ora ingestibile, frutto solo di una scelta politica di irresponsabilità.

Ma torniamo al circolo vizioso, per capire come intervenire. Lasciamo per ora da parte il recupero delle leve di governo dell'economia (che è la strada maestra e va fatto, al più presto), per concentrarci solo sulla relazione salari/profitti.

Abbiamo detto che l'aumento dei salari non collegato ad aumenti della produttività comporta una riduzione dei profitti ed una spinta inflazionistica. Poniamoci una domanda: spostare da una tasca all'altra, è a somma zero, oppure può produrre qualche effetto a livello complessivo di sistema?

Gli "esperti" ci hanno detto che se mettiamo i soldi in tasca ai ricchi, questi tendono ad investirli. Quindi creano ricchezza per tutti che, volendo, può essere distribuita. Se non si produce, comunque non c'è nulla da distribuire. Con questo ragionamento è stato giustificata la sostanziale diminuzione delle tasse sui ricchi, a partire da Reagan e la Tatcher, per finire ai nostri campioni, negli anni settanta. Sempre sulla base dell'assunto, viene comunemente accettato (perché ce lo dicono gli "esperti" e perché i sindacati se la sono bevuta) che è meglio favorire i profitti che i salari.

Abbiamo detto che, in periodi di crisi, grazie all'alta disoccupazione ed al conseguente potere contrattuale di cui godono le imprese, i soldi tendono a spostarsi - in maniera relativa - dai salari ai profitti. In periodo di crisi, però, le aziende che hanno i magazzini pieni di merce non venduta non hanno comunque alcun interesse ad investire o ad aumentare la produzione. Quell'aumento di disponibilità non si traduce in maggiore spesa. Anche perché (e qui introduciamo un tema fondamentale, che svilupperemo dopo) hanno la possibilità di scegliere: investire nella produzione, correndo il rischio di non riuscire a vendere la nuova produzione, oppure investire sui mercati finanziari, correndo il rischio finanziario. Quale investimento conviene, di volta in volta, dipende dal rapporto fra il rendimento ed il rischio che le due alternative offrono. Osserviamo il valore delle borse mondiali (che sono vicine ai massimi storici) e confrontiamolo con il livello della produzione mondiale (che stenta a decollare), per farcene una prima grossolana idea. Torniamo a noi. Nel frattempo, la diminuzione del monte salari diminuisce le potenzialità di spesa dei consumatori, dando un contributo negativo al problema, che ne risulta complessivamente aggravato. Dal punto di vista dell'inflazione, il processo di spostamento di potere d'acquisto dai salari ai profitti aggrava le situazioni di crisi.

Ipotizziamo il movimento contrario. Se nelle circostanze descritte (di crisi economica) fosse possibile invertire il flusso di capacità di spesa, togliendo ai profitti per dare ai salari, si produrrebbe un effetto complessivamente assai diverso. I soldi messi nelle tasche dei consumatori, in periodi di crisi, si traducono in maggiore spesa per consumi in maniera molto più diretta, certa ed automatica, di quanto non avvenga con le maggiori disponibilità date alle aziende. Una famiglia che sta facendo sacrifici e ottiene un aumento di stipendio, tende quasi certamente a spendere la nuova disponibilità, per soddisfare bisogni importanti che prima erano stati rimandati per necessità, più che per scelta. E' difficile immaginare che in quelle condizioni gli aumenti di reddito siano investiti in borsa... e possiamo concludere che il contributo dal lato dei salari alla crescita economica (che è sempre crescita della spesa), è sicuramente positivo. Dal punto di vista delle aziende cosa succede? La diminuzione dei profitti di per sé non è positiva, ma l'aumento dei consumi generato dalla maggiore spesa delle famiglie, farà si che i magazzini si svuotino e ricominci la produzione e, subito dopo, ritorni lo stimolo ad investire. L'aspetto positivo della vendita delle merci nei magazzini è certo. La nuova produzione ed ancora di più i nuovi investimenti, invece, dipendono dalle prospettive dei margini di guadagno. La riduzione dei profitti necessaria ad aumentare i salari, infatti, incide sui margini di guadagno. Se i margini non sono sufficienti, non ci sarà interesse ad aumentare la produzione perché si tradurrebbe in perdite operative. Se invece il margine di guadagno è solo ridotto, ma resta positivo, aumenterà la produzione. Infine, se le prospettive di ripresa economica si consolidano, scatterà in ogni caso la spinta ad investire, rendendo fortemente positivo per la crescita anche l'apporto dal lato delle imprese. 

E' una classica soluzione "win-win", dove tutti vincono, tutti stanno meglio.

Ma è legata, come tutto in economia, alla garanzia di equilibrio. Lo spostamento del potere d'acquisto deve rispettare da un lato un soddisfacente potere di spesa, dall'altro la salvaguardia di un livello accettabile di margini positivi. Dal punto di vista dell'inflazione, se a causa di una eccessiva contrazione dei margini non aumenta la produzione, il maggiore potere d'acquisto dei salari si tradurrà in maggiore inflazione. Se è accompagnato da nuova produzione di merci e servizi da vendere, l'equilibrio fra domanda e offerta resta assicurato, e si sarà spostato verso l'alto, ad un livello più soddisfacente per tutti.

Quello che è importante sottolineare, riassumendo tutti questi ragionamenti, è l'aspetto di automatismo negativo che producono le forze di mercato, lasciate a se stesse.

Il livello di distribuzione fra redditi da lavoro e redditi da impresa dipende dal diverso potere negoziale che le due parti in causa ottengono in funzione del ciclo economico. Passando dalla crisi al boom, la forza negoziale si sposta da un soggetto all'altro.

Crisi : alta disoccupazione, alto potere negoziale dei datori di lavoro, diminuzione dei redditi, diminuzione della spesa per consumi, successiva diminuzione della spesa per investimenti: la crisi peggiora.

Crescita : alta occupazione, alto potere negoziale dei lavoratori, aumento dei redditi, aumento della spesa per consumi... fino all'azzeramento dei margini di guadagno delle imprese. Rallentamento della produzione, licenziamenti: crisi.

Nella negoziazione fra soggetti privati si deve dare per scontato che gli interessi in gioco vengono valutati esclusivamente dal punto di vista privato. Le imprese che comprimono i salari per aumentare i profitti quando hanno potere negoziale non si preoccupano (ed è normale) degli effetti che in futuro saranno prodotti a livello macro. Se ne occuperà qualcun altro. Lo stesso dicasi per i lavoratori che possono ottenere un aumento di stipendio grazie al potere negoziale elevato in momenti di boom. L'ultima delle loro preoccupazioni sarà la possibilità di scatenare inflazione e successiva riduzione degli investimenti. Qualcun altro se ne occuperà. Tutti pensano.

Lo Stato, che se ne dovrebbe occupare, cosa fa? 

Potrebbe fare molto. Sicuramente come mediatore nei rapporti di forza, introducendo l'elemento dell'interesse pubblico, che è quello di garantire: la sostenibilità economica; una equa ripartizione della ricchezza; il mantenimento del potere d'acquisto della moneta accompagnato da livelli crescenti di occupazione e benessere. 

Potrebbe fare ancora di più, usando le leve di governo dell'economia per garantire l'aumento della spesa pubblica quando quella privata non è sufficiente; oppure la diminuzione del prelievo fiscale per concedere maggiore reddito ai lavoratori e maggiori profitti alle imprese quando serve farlo; oppure direttamente gli investimenti necessari a creare occupazione, quando quella offerta dal settore privato non è sufficiente. Ma.. ahh.. già.. dimenticavo che lo Stato le leve di governo dell'economia non le ha più. Ha abdicato alla sua responsabilità. Peccato, no?

Torniamo allora al potere di mediazione. Nella contrattazione collettiva la presenza delle istituzioni pubbliche potrebbe in teoria svolgere la funzione di ristabilire l'equilibrio che, lasciato alle forze negoziali private, tende a produrre danni a livello macroeconomico. Nella sua funzione di mediatore fra le parti sociali, dovrebbe quindi favorire aumenti salariali slegati dalla produttività nei momenti di crisi economica e di alta disoccupazione. Al contrario, in regime di piena occupazione, dovrebbe impedire aumenti salariali che finirebbero solo per far salire l'inflazione, contrarre eccessivamente i profitti, disincentivare gli investimenti. Tutto questo, purtroppo, solo in teoria. In teoria, perché anche lo Stato, come soggetto negoziatore, è condizionato dal suo potere negoziale. Ora, se osserviamo l'attuale potere negoziale dello Stato, dobbiamo tristemente constatare che è drasticamente scaduto. Una volta che abbiamo stabilito - per legge - che lo Stato non ha le leve di governo dell'economia e quindi non può mettere sul tavolo negoziale nuovi investimenti o una riduzione delle tasse; non può usare aiuti di stato alle imprese neppure se avesse le risorse; non può impedire alle aziende di delocalizzare; non può impedire alle aziende che delocalizzano di vendere le loro merci in Italia. Neppure per legge potrebbe imporre accordi diversi da quelli che scaturiscono esclusivamente dal confronto brutale della forza contrattuale. In più, vincolato com'è dalla necessità di rispettare parametri fiscali insostenibili, è condannato a provocare con aumenti delle tasse e tagli alla spesa nuova deflazione e crisi, aumentando di fatto il potere negoziale della parte che già ne ha troppo. 

Tante cose buone si potrebbero fare, anche abbastanza facilmente. Ma la classe politica attuale, che ha disegnato l'attuale cornice di libertà per i privati e di impedimenti per le istituzioni, ha rinunciato ad assumersi le sue responsabilità.

Per fare un esempio di contenimento dell'inflazione in presenza di piena occupazione, dobbiamo quindi ricorrere alla storia. Almeno tre esempi possono essere ricordati, tutti caratterizzati da un elevato potere centrale di controllo dell'economia. Negli Stati Uniti, durante l'ultima guerra, c'era piena occupazione e il contenimento dell'inflazione era garantito attraverso il controllo imposto sia ai salari che ai prezzi. Ha funzionato. Stessa situazione nella Germania di Hitler, prima della guerra: piena occupazione, controllo di prezzi e salari. Ancora, nei regimi del socialismo reale: piena occupazione, controllo di salari e prezzi.

Nessuna di queste situazioni, in realtà, è particolarmente affascinante, perché presuppone una privazione della libertà che nessuno di noi auspica. Eppure, ragionando su libertà e responsabilità, che sono due facce della stessa medaglia, una qualche forma di limitazione della libertà individuale per soddisfare interessi di carattere pubblico va concepita ed attuata. La storia odierna, la realtà che ci circonda, figlia del liberismo eccessivo, non è più soddisfacente: le forze di mercato, lasciate a se stesse, si allontanano dall'equilibrio e schiacciano le masse comprimendo continuamente i salari e devastando gli stati.


Prima di saltare alle conclusioni, però, alla ricerca di un difficile equilibrio, dobbiamo completare il quadro e trattare il tema dell'asset inflation: l'inflazione dei beni patrimoniali.

Riprendiamo le nostre imprese che grazie all'accumulazione di profitti hanno la possibilità di scelta: investire nella produzione oppure investire sui mercati finanziari. Per prima cosa bisogna capire che la scelta è realmente alternativa: aut aut. O si investe nella produzione, oppure si investe sui mercati finanziari. Non è la stessa cosa, sia dal punto di vista individuale, sia da quello macroeconomico e collettivo. 

Iniziamo dal punto di vista individuale. Sono una azienda, siamo in periodo di crisi, c'è disoccupazione. Chiamo i sindacati ed annuncio serafico: o accettate una riduzione del salario (in varie forme.. aumento dell'orario senza aumenti di stipendio, o qualsiasi altro modo fantasioso che produca l'effetto..) oppure chiudo e vado altrove. I lavoratori accettano, aumentano i miei profitti. Le merci le vendo all'estero e se la crisi peggiora in patria mi dispiace ma la cosa non influenza i miei profitti privati. Sono oggettivamente compartecipe del dolore locale ma... business is business. Ora, cosa ci faccio con la nuova disponibilità? Valuto alternative. La prospettiva di un nuovo impianto industriale mi offre la possibilità di guadagnare il 10%, accompagnata dal rischio di non vendere la merce che, su una scala da 1 a 10, in questo momento di incertezza, valuto 7. Mi chiama il tizio del private banking  che mi propone di investire in un prodotto finanziario qualunque (azione, obbligazione, titolo con un derivato dentro, fondo di investimento..) che, valutato dagli "esperti", offre un rendimento del 5% ed un rischio valutato 3 (sulla stessa scala da 1 a 10). Breve calcolo comparativo del rendimento ponderato per il rischio:
Osservando il rendimento assoluto, l'investimento industriale è migliore di quello finanziario (10 contro 5%).
Se introduciamo la ponderazione per il rischio, il confronto porta a risultati opposti:
investimento industriale : 10 / 7 = 1,43   
investimento finanziario : 5 / 3 = 1,67
scelgo senza dubbio l'investimento finanziario.

I tizi del private banking sono molto bravi a far brillare questi numeri. E se i clienti sono di riguardo, i numeri tendono a brillare anche nella realtà. Per un motivo quasi automatico, che qui accenniamo solamente, rimandando l'approfondimento al Capitolo II che sarà interamente dedicato ai mercati finanziari. Da cosa dipende il valore di un investimento finanziario? Dimenticate tutte le formule astruse che parlano di utili futuri prodotti dalle aziende che sono solo specchietto per le allodole (o i polli). Dipende, molto banalmente, dalle legge della domanda e dell'offerta, che conosciamo a perfezione. Se tanti compratori sono disposti a comprare un bene e l'offerta è limitata, il prezzo sale, inevitabilmente. Aggiungiamo: se tanti compratori con soldi in eccesso e poche alternative vengono convinti ad investire in un asset finanziario il cui prezzo sta salendo, grazie all'arrivo di altri soggetti che sono stati convinti ad acquistarlo, e l'offerta è limitata, il prezzo sale. Sale, e se la domanda è esagerata, perde inevitabilmente il contatto con la realtà. Cioè: si allontana la possibilità che gli utili futuri di impresa prodotti da qualcun altro legati in un modo sempre più labile alla consistenza del titolo finanziario siano tali da giustificare in qualsiasi modo che risponda a logica il valore della quotazione. 

Noi siamo convinti che gli esperti sappiano; che sappiano calcolare e prevedere il futuro; che siano disposti a condividere con noi questa sapienza e gli utili che ne derivano. E' commovente questa nostra capacità di credere alle favole. Smuove il fanciullo che è in noi. In realtà gli "esperti" vanno molto a peso e a sensazioni (e a informazioni riservate), e quando avvertono che si è tirata un po' troppo la corda, distinguono. I clienti di riguardo vengono invitati ad uscire dall'investimento, per primi, gli altri pagano per tutti. 

Quanto si può allontanare il prezzo di un titolo dal valore "reale"? In realtà dovremmo domandarci quanto sia sensata l'idea in sé di poter calcolare matematicamente il valore reale di cose che devono accadere in futuro. Non per nulla i migliori vengono chiamati, e considerati, maghi della finanza. In realtà, gli unici che hanno possibilità concrete di prevedere (abbastanza) il futuro (molto prossimo), sono quelli che hanno strumenti per influenzare gli eventi, e le informazioni riservate. Il valore dei titoli dipende in maniera preponderante dalla quantità di domanda e molto meno da qualsiasi altra considerazione più di quanto non si immagini comunemente. Da cosa dipende la domanda di un titolo? Dalla quantità di moneta nelle tasche degli investitori e dalle possibilità alternative. E da chi orienta le scelte degli investitori.

Se sui mercati finanziari continuano ad arrivare flussi di denaro in cerca di rendimenti, il gioco si auto alimenta. I prezzi salgono, si gonfiano d'aria. Inflazione. Inflazione degli asset finanziari. 

Se le banche centrali continuano ad immettere generosamente montagne di denaro a bassissimo costo che tramite il sistema bancario privato possono essere investite sui mercati finanziari ed ottenere un rendimento superiore a quel costo, l'aumento della domanda è assicurato, e con esso l'inflazione dei prezzi dei titoli. Se il sistema finanziario privato è orientato a convincere i risparmiatori ad investire i loro risparmi sui titoli, il prezzo dei titoli sale, il cliente è contento, la banca guadagna commissioni di intermediazione senza correre rischi ed è contenta. Chi cavolo glielo fa fare alle banche private di andarsi a impelagare nell'intermediazione del risparmio? A prendere il rischio di usare i soldi dei risparmiatori per prestarli alle aziende, quando c'è l'investimento finanziario a portata di mano, e fino a quando l'azione delle banche centrali garantisce che il giochino continui?  

In figura 26 l'espansione del credito, favorita dalle banche centrali.




Ecco, facciamo mente locale a questa azione delle banche centrali. Ricordiamo che le avevamo rese autonome, sottratte al potere dello Stato, affinché potessero svolgere la funzione che i Governi ed i Parlamenti, per "natura" spendaccioni, non sono ritenuti in grado di poter svolgere: il controllo della stabilità dei prezzi. Il controllo dell'inflazione. A guardare bene, la loro azione non solo tollera ed è complice, ma addirittura causa, provoca, l'inflazione dei patrimoni finanziari. Che è cosa assai diversa dall'inflazione dei prezzi al consumo, ma non meno devastante e pericolosa per l'interesse pubblico.

Questi gli effetti dell'espansione del credito che si ripercuote sul valore delle borse, in figura 27



Per info, ora che la FED attua il quantitative easing, immettendo più di 80 miliardi di liquidità ogni mese... siamo di nuovo ai massimi storici, vicino a 1650, nonostante l'economia reale non sia particolarmente brillante. 


Andiamo a vedere questa pericolosità. Primo, il buon senso e la legge di gravità prima o poi obbligano a fare i conti con la realtà. Le bolle speculative prima o poi scoppiano, e fanno male. Provocano guasti sociali enormi, quando scoppiano. La crisi del 2007 che si propaga ad oggi - ed è solo l'inizio - è figlia di questa enorme bolla speculativa e delle sue conseguenze. Quando il valore scende a livelli più realistici, si distrugge ricchezza, e questa distruzione, grazie ai rapporti di forza, si abbatte sulle classi sociali meno protette. Secondo, la possibilità di investimento finanziario, in quanto alternativa, sottrae risorse all'economia reale, che è già aggravata, di per sé, dalle regole che negano ai governi la possibilità di spendere.

Chi ci guadagna e chi ci perde?

Se sono ricco o creditore, ho un doppio vantaggio.

1) La crisi tiene bassa l'inflazione al consumo; quindi il potere d'acquisto della mia ricchezza è salvaguardato. Anzi, con la deflazione, aumenta: se altri sono obbligati a svendere case, terreni, aziende, cose, ho la possibilità di fare ottimi affari, trasformando ricchezza di carta e crediti inesigibili in beni reali.

2) L'alta inflazione degli investimenti finanziari fa crescere continuamente il valore della mia ricchezza di carta. Altro potere d'acquisto

Una bassa inflazione al consumo accompagnata da una alta inflazione dei patrimoni finanziari è il bengodi dei ricchi creditori. 

Il che, naturalmente, vuol dire che se sono povero e debitore, sono disperato.

1) La deflazione si accompagna a disoccupazione e perdita del potere d'acquisto dei salari, mentre il peso del debito si fa sempre più pesante.

2) Un'alta asset inflation rende sempre meno conveniente per le aziende investire nell'economia reale, sempre più conveniente per le banche intermediare il risparmio sui mercati finanziari, stringendo quindi i cordoni della borsa per i prestiti a famiglie ed aziende.

Quindi, quindi, quindi. Abbiamo rinunciato alle leve di governo dell'economia consegnandole a banche centrali talmente autonome che possono rispondere solo agli interessi dei mercati finanziari, non più a quelli degli Stati. Abbiamo rinunciato alla possibilità di intervenire nell'economia e di creare benessere e piena occupazione. Il tutto, nel nome della stabilità della moneta e del controllo dell'inflazione (che comunque sarebbe anticostituzionale). E cosa abbiamo ottenuto in cambio ? Asset Inflation e deflazione al consumo.

La deflazione che ci condanna ad essere sempre più prigionieri del debito. L'inflazione dei patrimoni finanziari, che consegna ricchezza e potere ad un numero sempre più ristretto di persone, mentre manda in rovina l'economia reale. 

Tutto ciò NON è avvenuto per caso. E' la conseguenza di scelte politiche ben precise, descritte, una ad una, nei paragrafi precedenti.

ULTIMA NOTAZIONE, IMPORTANTISSIMA. NON E' SUFFICIENTE CAMBIARE IL MANDATO DELLE BANCHE CENTRALI. ANCHE SE VOLESSERO, NON HANNO LA POSSIBILITA' DI SCEGLIERE A CHI DARE I SOLDI, PER FAVORIRE L'OCCUPAZIONE. O LA POLITICA SI RIPRENDE LE SUE RESPONSABILITA', O AVREMO SEMPRE PIU' DISOCCUPAZIONE.

Questa cosa è sostanzialmente ignorata da quanti sperano che una maggiore immissione di denaro nel sistema possa - da sola - risolvere il problema. Il denaro non fluisce naturalmente verso l'economia reale. Non c'è nulla di naturale nel sistema finanziario. Ci sono scelte, riservate ad "esperti" isolati dalla politica che operano per fini contrari all'interesse pubblico. Ed i risultati si vedono. Il denaro fluisce "spintaneo" verso i mercati finanziari e langue là dove serve: allo Stato, alle famiglie, alle aziende


Prima di concludere il discorso sull'inflazione, avevamo promesso un confronto con le definizioni "ufficiali".

Prendiamo wikipedia: "In economia il termine inflazione indica un generale e continuo aumento dei prezzi di beni e servizi in un dato periodo di tempo che genera una diminuzione del potere d'acquisto della moneta".

La definizione più o meno quadra. Ci sono due aspetti, però, che vanno considerati. "Generale e continuo" sono aggettivi precisi: se l'aumento dei prezzi deve essere generale e continuo, ne consegue che non c'è inflazione quando sono solo alcuni prezzi a salire e altri sono fermi (l'aumento non è generale). Ancora, non c'è inflazione se tutti i prezzi salgono, ma solo in un momento concentrato nel tempo, e poi smettono di salire (l'aumento non è continuo).

Non voglio rompervi le scatole con sofismi linguistici noiosi. Il problema è molto concreto, perché se si ritiene che un problema non esiste, non viene gestito

Se si ritiene che l'aumento dei prezzi degli asset finanziari non sia inflazione, quindi non sia un problema, non si interviene a gestirlo. Guarda caso, questo singolare aumento dei prezzi non provoca reazioni delle Autorità, anche se è evidente che è diventato generale e continuo. E neppure osservazioni. E neppure misurazioni. Sull'inflazione dei beni al consumo esistono studi e numeri e indici e dibattiti sui numeri e sugli indici, per il mostro da tenere a bada. Perfino wikipedia si dilunga in equazioni complesse ed inutili, per parlare di una cosa che vive molto direttamente nella percezione delle persone, quando c'è, ben al di la delle misurazioni ufficiali. L'asset inflation, invece, usa una lingua straniera per parlare di se, è discreta, silenziosa, non appare sui giornali, non se ne parla nelle televisioni, si evita accuratamente di misurarla. Roba da signori, da trattare con riserbo. Cercatela, nell'Inflation Island della BCE. Nello Statuto della BCE, nei Trattati che ci obbligano a morire per contenere l'inflazione al consumo e ignorano quella che fa bene ai ricchi creditori. Nell'opinione pubblica, semplicemente non esiste, perché fa bene al potere.

Chi gestisce l'informazione? Chi scrive le regole? I ricchi creditori, oppure i poveri debitori?

Se si ritiene che un aumento generale ma "una tantum" dei prezzi non sia inflazione - quindi non rappresenti un problema - non si interviene per gestirlo. Ora, ci ricorda qualcosa la transizione dalla Lira all'Euro? Quanti prezzi sono stati aggiustati "una tantum" da mille lire ad 1 euro, sostanzialmente raddoppiando, senza che le Istituzioni si preoccupassero di intervenire?

Mettiamo il caso che si torni alla lira: facciamo il bis o, almeno stavolta ci preoccupiamo? Qualcuno ribadisce, oggi, il concetto che un innalzamento dei prezzi una tantum non rappresenta inflazione, quindi non è un problema, e passa oltre.

Precisiamo le conseguenze pratiche. Perché a noi delle definizioni e delle teorie economiche importa molto poco, se non comprendono e se non risolvono i problemi pratici della gente. Di fronte all'asset inflation nessuno fa nulla. Le banche centrali fanno finta di nulla. Nei rari momenti in cui ne parlano affermano che non è un problema loro e non debbono intervenire a turbare i sacri equilibri del mercato. Lo Stato non fa nulla perché si è fidato delle banche centrali e non si sente più responsabile. Intanto le bolle speculative si gonfiano, mentre l'economia reale langue, e ricchezza e potere si concentrano nelle mani di pochi ricchi creditori.

Un innalzamento continuo dei prezzi è legato all'aumento del potere contrattuale dei lavoratori, quindi si accompagna generalmente all'aumento successivo dei salari. Un aumento "una tantum" non consegna ai lavoratori nessun potere contrattuale, ma solo una sonora mazzata al loro potere d'acquisto. O qualcuno interviene, o la fregatura è assicurata.

A meno che, pazientemente e fiduciosamente, ci sediamo ad aspettare la "mano invisibile" promessa dal liberismo. Se è vero che quando gli individui sono lasciati in pace ad occuparsi dei loro affari privati c'è una mano invisibile che garantisce che gli affari pubblici ne risultano automaticamente meglio tutelati, allora siamo in una botte di ferro. In fondo, data la attuale profonda concentrazione dei ricchi creditori sulla accurata tutela dei lori interessi privati, mai così libera e così forte, come ai giorni nostri, se quella relazione esiste, deve necessariamente manifestarsi oggi. Oggi, o mai più... la mano invisibile che finalmente metterà le cose a posto, rendendoci tutti finalmente più ricchi e felici. 

Non assomiglia forse molto alle promesse dei nostri governanti che, estremamente fiduciosi, continuano a rassicurarci sull'immancabile, prossimo arrivo della ripresa?

Il buon Adam Smith, che era persona dotata di profonda onestà intellettuale, un avvertimento importante l'aveva dato: oligopoli e monopoli sono nemici della mano invisibile, la tengono legata. Se si vuole tutelare l'interesse pubblico, e consentire che la ricerca privata del profitto sia compatibile con l'interesse pubblico, le Istituzioni devono intervenire ad evitare che oligopoli e monopoli nascano e crescano. O fagociteranno tutto. Come stanno facendo. 

Il guaio è che abbiamo permesso alle persone che vivono attorno agli oligopoli ed ai monopoli di concentrare ricchezze e potere troppo grandi, dentro quelle organizzazioni. Tali da condizionare invariabilmente le stesse Istituzioni pubbliche. Le leggi, oggi, sono dalla loro parte. La scelta di consegnare le leve di governo dell'economia ai mercati finanziari non è un errore tecnico della politica. E' frutto di un condizionamento voluto e perseguito.


Un ultima notazione sulla teoria classica, e poi ci licenziamo, che il discorso è andato sin troppo avanti. 

La formula di Fisher sull'inflazione la dobbiamo osservare, se non altro perché, a tutt'oggi, è ampiamente usata - più che altro nella versione dell'immaginario collettivo - per consegnare alle banche centrali il potere di controllare la quantità di moneta immessa in circolazione.

Fisher ci dice che l'andamento dei prezzi P (e quindi l'inflazione) è funzione della quantità di moneta e della quantità degli scambi (la velocità di circolazione). Il che, a ben guardare, fa molto senso, perché alla velocità degli scambi colleghiamo le merci in vendita e torniamo quindi alla normale legge della domanda e dell'offerta. 

In particolare, P è direttamente proporzionale alla quantità di banconote in circolazione M moltiplicata per la velocità di circolazione delle stesse V, più la quantità di depositi bancari M1 (moneta secondaria) moltiplicata per la velocità di riproduzione degli stessi V1, ed inversamente proporzionale al numero di transazioni eseguite.

                                       MV + M1V1
                             P = ---------------------
                                             T

La matematica non è un opinione, fino a quando non viene applicata alle scienze sociali. Quando si applica alle scienze sociali, rischia di trarre in inganno, data la tendenza naturale di chi prepara la formula a semplificare un po' troppo la realtà, per poter considerare tutte le innumerevoli variabili che possono, in un modo o nell'altro, contribuire a influenzare il risultato. Quindi, in genere, ci si limita a dire: ferme tutte le altre variabili. Come se tener ferme le interrelazioni sociali fra i milioni di soggetti che interagiscono sia cosa facile, o possibile.

Mi limito ad osservare due cose. Primo, ha poco senso parlare di prezzi senza aver specificato quali: i prezzi dei beni al consumo rispondono a logiche e procurano problemi che sono diversi da quelli relativi ai prezzi dei mezzi della produzione, così come i prezzi degli investimenti finanziari. Quantomeno, per amore di verità, si dovrebbe misurare e pubblicizzare accuratamente anche l'inflazione dei patrimoni finanziari e misurare la quantità di moneta che va a finire nell'economia reale (produzione e consumo) e nell'economia di carta (investimento finanziario). Secondo: non esiste "il sistema" economico. Mettere moneta "nel sistema" non vuol dire nulla. Il sistema finanziario è pieno di canali e derivazioni secondarie che fanno andare i flussi che partono dalle banche centrali verso alcune direzioni e non verso altre. 

Di 20 dollari immessi oggi dalla FED nel sistema finanziario solo 1 arriva all'economia reale e si trasforma in PIL. 19 restano nei mercati finanziari, a gonfiare il debito nostro e la ricchezza di carta di pochi.

Gli effetti che la quantità di moneta produce quando si trova nelle tasche dei consumatori sono completamente diversi dagli effetti che la stessa quantità di moneta produce quando si trova nei portafogli degli investitori o dei produttori.

Quello che genericamente viene chiamato sistema finanziario è qualcosa di molto complesso e differenziato, sempre più pensato e regolato per favorire il dirottamento della liquidità che proviene dalle banche centrali verso l'investimento sui mercati finanziari; verso gli investimenti che fanno comodo agli oligopoli ed ai monopoli, che al sistema finanziario sono intrinsecamente collegati; sempre meno verso l'economia reale fatta di lavoratori, produttori e famiglie consumatrici. Il tema, sarà approfondito nel secondo Capitolo. 

Limitiamoci a dire che parlare di quantità della moneta e della sua velocità di circolazione non ha senso, se non si introduce la valutazione delle diverse  categorie di prezzi e la complessità del sistema economico/finanziario.


Tiriamo due righe di conclusione. 

L'inflazione è di vari tipi e non ha senso parlarne senza specificare: prezzi  dei beni di consumo, dei beni strumentali alla produzione, dei beni d'investimento finanziario.

Sicuramente l'inflazione è legata ad uno squilibrio fra domanda ed offerta dei singoli beni che, di volta in volta, stiamo esaminando.

Lo squilibrio non è funzione di atteggiamenti psicologici, ma è funzione del potere negoziale, che per la domanda è dato dal potere d'acquisto (moneta in tasca) e per l'offerta è dato dalla quantità e qualità della concorrenza.

Il ciclo economico crescita/crisi influisce sull'occupazione che a sua volta influisce sul livello dei prezzi.

Le forze di mercato, lasciate a se stesse, portano a provocare crisi e squilibri.

Le banche centrali non hanno alcun potere di controllare l'inflazione al consumo e l'occupazione, ma hanno il potere di scatenare l'asset inflation. E lo fanno.

Le Istituzioni, avendo ceduto le leve di governo dell'economia, ci hanno portato automaticamente dentro una deflazione al consumo e ad una inflazione dei patrimoni che favoriscono entrambe i ricchi ed i creditori e condannano i poveri ed i debitori a star sempre peggio.

L'equilibrio fra occupazione, crescita e stabilità dei prezzi si può ottenere solo ed esclusivamente se le Istituzioni recuperano il loro pieno potere di governare l'economia, ponendosi arbitro imparziale fra le forze sociali. 

Ma la scoperta più importante che abbiamo fatto, inseguendo ragionamenti d'economia, è che le scelte politiche in materia economica adottate dalla attuale classe dirigente negli ultimi decenni, sono formalmente e sostanzialmente contrarie ai principi fondamentali del diritto. 

La politica ha scelto di lasciare libere le forze di mercato di regolare i rapporti sociali, rinunciando alla responsabilità di regolare quei rapporti di forza sempre più squilibrati, e rinunciando al dovere giuridico - oltre che etico e politico - di attuare le prescrizioni del patto sociale scritto nella nostra carta Costituzionale.


Il concetto di Principio Fondamentale non è equivoco : è il fondamento della legittimità di ogni successiva norma. Norme in contrasto con il principio, non sono legittime. La Corte Costituzionale, come il Presidente della Repubblica,  dovrebbero intervenire a dichiarare illegittima una lunga serie di recenti manipolazioni della nostra Carta fatti in manifesto contrasto con tutti i Principi Fondamentali. Se non lo fanno, dobbiamo interrogarci sui motivi del loro silenzio.

Mi dilungo su questo aspetto, perché dobbiamo assolutamente prendere atto, noi cittadini che abbiamo a cuore la legalità ed il senso di giustizia che ne è inscindibilmente legato, che le Istituzioni sono occupate da persone che hanno ripetutamente tradito il patto sociale. Hanno scritto leggi che violano in maniera manifesta e profonda perfino il buon senso, oltre che tutti i principi fondamentali. Loro sono la violenza. Loro sono l'illegalità. Loro sono l'ingiustizia.

Nella vita, bisogna scegliere. Siamo abituati a dare per scontato che i principi possano essere traditi. Riteniamo normale e inevitabile che la Costituzione non venga attuata. Vediamo, sappiamo e - fra di noi, al bar - ce lo diciamo con risentimento che siamo stati traditi. Eppure, nella sostanza, accettiamo in silenzio. Non abbiamo il coraggio di concepire e proclamare pubblicamente il pensiero corretto: chi non rispetta i Principi Fondamentali non può essere né ascoltato, né rispettato. Chi reclama il rispetto delle Istituzioni, ma non dei Principi Fondamentali, è in grave errore, o in mala fede.

Oggi, una forza politica che vuole recuperare il senso della legalità e della giustizia, e pretendere il rispetto dei principi fondamentali e la loro concreta attuazione, deve forzare gli schemi legislativi secondari. Ha il dovere giuridico, oltre che etico e politico, di farlo.  


1 commento:

  1. Ottimo lavoro Guido! se avrai modo di leggere i libri di Auriti che ti ho consigliato, questa tua analisi prenderà più forza! grazie

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